USCITA CINEMA: 10/12/2010
GENERE: Drammatico
REGIA: Susanne Bier
SCENEGGIATURA: Susanne Bier,
Anders Thomas Jensen
ATTORI: Mikael Persbrandt, Markus Rygaard,
William Johnk Nielsen, Trine Dyrholm,
Ulrich Thomsen, Anette Stovelbaek,
Toke Lars Bjarke, Camilla Gottlieb
MONTAGGIO: Pernille Bech
Christensen
DISTRIBUZIONE: Teodora Film
PAESE: Danimarca 2010
DURATA: 113 Min
FORMATO: Colore |
RICONOSCIMENTI:
Nel 2010 ha
partecipato in concorso al Festival
Internazionale del Film di Roma dove
ha vinto il Premio Marc'Aurelio
d'Oro del pubblico al miglior film e
il Gran Premio della Giuria
Marc'Aurelio d’Argento.
Nel 2011 ha vinto il Golden Globe
per il miglior film straniero e
l'Oscar al miglior film straniero .
La regista si è inoltre aggiudicata
il premio alla migliore regia agli
European Film Awards 2011.
Il film ha ricevuto inoltre diverse
candidature ai Premi Robert
dell'Accademia del cinema danese ,
aggiudicandosi quello per Miglior
attrice protagonista.
La
Regista:Susanne Bier,
studentessa di storia dell'arte alla
Hebrew University di Gerusalemme e
specializzanda in architettura all'Architectural
Association di Londra, si diploma
alla Danisch School of Film di
Copenhagen nel 1987 ed è proprio in
questo periodo che coltiva con
passione l'amore per il cinema.
Esordisce come regista, inizialmente
con lungometraggi, e documentari. Si
forma alla scuola di Lars Von Trier.,
sperimenta diversi generi ed
aderisce al manifesto del Dogma
fondato da Von Trier.
Il film “Non desiderare la donna
d'altri” segna un cambiamento
nel suo percorso artistico e la
porta sulla scena internazionale.
Nel 2006 il suo film “Dopo il
matrimonio” viene nominato
all'Oscar come miglior film
straniero. Il suo talento si
conferma nei due film successivi: “Noi
due sconosciuti” (2008) e in “In
un mondo migliore”
(2010), film premio Oscar 2011
(Miglior film straniero).
RECENSIONE
Tanti sono i piani
che si intrecciano in questo film:
la complessità delle relazioni e
degli affetti familiari; la
violenza vista in contesti diversi
(quella che origina il fenomeno del
bullismo, ma anche quella culturale
e sociale che influisce in maniera
drammatica sul destino di tante
popolazioni); il problema etico di
come rapportarsi con la violenza,
posto come un dilemma drammatico
che non viene risolto attraverso
l'individuazione di una modalità di
risposta “corretta” . Vengono,
invece, lasciati allo spettatore
delle possibilità: quella di
interagire, sia emotivamente che
razionalmente, con diversi livelli
di rappresentazione della violenza;
quella di lasciarsi interrogare su
ciò che è etico; quella di
chiedersi in quale contesto questa
eticità può avere valore e se sia
possibile avere un mondo migliore.
La regista, con una
mano decisa , crea un ponte tra i
legami familiari e quelli sociali,
alternandosi ed intrecciando le
storie delle famiglie con quelle del
microcosmo sociale (la scuola,
l'ambiente prossimo del mondo in cui
si vive) e con quelle di una realtà
apparentemente più lontana quale
quella di un paese povero e
dilaniato del terzo mondo.
Da un certo punto di
vista il film è esemplare della
capacità di mettere in luce la
nascita della violenza all'interno
delle famiglie cosiddette “normali”,
di come questa possa essere in
relazione alla mancanza, alla
perdita e al dolore, che non trovano
altra via di uscita se non la rabbia
agita; della responsabilità degli
adulti rispetto a questo fenomeno,
sia come portatori essi stessi di
violenza che come interpreti
difficili di un ruolo affettivo,
educativo e di mediazione tra
genitori e figli e tra mondo
familiare e mondo esterno.
Soprattutto lo sguardo sembra
esplorare il mondo maschile ed il
suo rapporto con la violenza, a
partire da come viene vissuto il
ruolo di padre (la sua
presenza/assenza all'interno della
famiglia, di quali valori è
portatore e può quindi
trasmettere), di come questo
influisce sui figli e sul rapporto
tra pari, sino ad arrivare alla
terribile violenza di uomini sul
corpo delle donne nel paese
africano. Le donne, quando non sono
esse stesse vittime, appunto,
vengono viste come punto di
riferimento affettivo, sia nella
presenza che nella perdita, con un
ruolo spesso di supplenza rispetto
alla figura paterna.
Il film non risolve
il dilemma etico di quale risposta
dare alla violenza. Sembrerebbe
esserci una soluzione forse più
facile nell'ambito familiare: più
presenza anche di padre, più
ascolto, più spazio al
riconoscimento della sofferenza per
interrompere il circolo vizioso, ma
cosa fare quando violenza genera
violenza: di padre in figlio o di
società in società (quella ricca nei
confronti di quella povera e
sfruttata, o quella interna a un
mondo non solo povero ma dilaniato
da una cultura violenta)?
La speranza in un
mondo migliore mette in gioco il
piano personale ma anche una idea
del mondo che richiede o
richiederebbe un'idea della politica
e dell'economia declinata secondo
principi che mettano al primo posto
il riconoscimento dei bisogni
fondamentali e del valore delle
persone. |